Sandro Allegrini

Sembra proprio che Angelo Buonumori, nelle varie fasi di concezione, elaborazione e successiva produzione dei ritratti di amici e interlocutori – ora in mostra alla Rocca Paolina – si sia ispirato alla nota frase di Matisse (Notes d’un peintre) il quale affermò Voglio raggiungere quello stato di condensazione delle sensazioni che costituisce un dipinto.
Poco conta, poi, il fatto che Angelo – da grafico di raffinato e smaliziato mestiere – si sia avvalso di tecniche non canoniche, fino ad ottenere un raffinato mix alchemico, capace di fornire un prodotto inusuale e difficilmente collocabile nelle categorie canoniche delle tecniche dell’arte.
Mi pare che un’attenta osservazione di questa produzione aiuti a comprendere come, al di là del realismo (che spesso smargina in uno spiazzante iperrealismo), i ritratti meritino a buon diritto quella definizione di condensazione delle sensazioni evocata da Matisse. Infatti, oltre che rappresentazioni fedeli dell’epifenomeno, i volti e i corpi effigiati sulla tela somigliano a “paesaggi dell’anima” a “topografie morali” che colgono l’intimo della persona, le pieghe nascoste del suo Io, aggirando le insidie del radente conformismo e della più superficiale fisiognomica.
Non a caso, osservando una signora che si lasciava fotografare accanto al suo ritratto in mostra (apparendo, peraltro, più giovane e fresca nella realtà) ho percepito chiara la sensazione che la diversità tra i due soggetti fosse riconducibile ad un’operazione di “destrutturazione e ricomposizione del reale” operata dall’artista, il quale si è preso gioco dei sensi per riproporre un’immagine che, ben oltre la semplice somiglianza, assolutizza ed eterna il dato somatico, congelandolo nei suoi aspetti connotativi, ma poi sostanzialmente astraendolo, fino a farlo divenire prerogativa spirituale.
Mi sono, naturalmente, ben guardato dal manifestare quest’impressione al pittore o alla signora, ma ciò mi ha rafforzato nella convinzione che il poietès (il quale non è solo “poeta”, ma letteralmente “facitore”) sia in grado di cogliere l’essenza della vita, forse meglio di un filosofo, per poi riproporla, “ricrearla” ed eternarla con l’ impudenza tipica dell’Artista.
Anche gli acronimi che evocano il nome proprio della persona ritratta sono sempre un autentico programma, integrando la parte strettamente pittorica e facendo luce sulla personalità dell’effigiato, sia esso il collega Franco Venanti, infarcito di connivente narcisismo, o l’attore Valter Corelli, còlto in un suo atteggiamento declamatorio e professionale: entrambi hanno negli occhi la malizia complice dell’istrione.
In queste figure, non meno che in altre, c’è anche la valenza pirandelliana dei “personaggi in cerca d’autore”, sfaccettati, poliedrici, multiformi. Ma anche ambigui, equivoci, come lo è chiunque di noi nel gioco della vita, nel farsesco e scettico inganno che ci sconvolge e ci coinvolge in una molteplicità infinita di ruoli e di situazioni.
Spesso l’aspetto incompleto di alcuni lavori, perfetti solo nel viso o in un dettaglio, abbozzati per il resto, ci conferma l’opinione michelangiolesca per cui spesso la parte è migliore del tutto, ma costituisce anche un elemento citazionale della storia dell’arte che ci fa pensare all’Arlecchino di Picasso o, per restare tra gli amici, ad altri mirabili “incompiuti” di Franco Venanti.

Distinto da tutti gli altri, posto in una sala laterale, il ritratto che Angelo Buonumori propone di se stesso costituisce, per così dire, la chiave della sua “poetica” di scrittore per immagini.
L’artista, infatti, si presenta a tutto tondo in due sembianze distinte e complementari: una frontale, circoscritta e conclusa in un unico supporto, ed una prospettata da dietro, frammentata in più riquadri.
La metafora calviniana del Visconte dimezzato è l’analogia immediatamente percepibile, quasi a volerci ricordare che non esiste il bene senza il male, che non c’è moneta ad una sola faccia, che la figura dell’ossimoro è quella che compiutamente rappresenta il contraddittorio svolgersi dell’esistenza. Dunque non c’è luce senza buio, concetto letteralmente inteso, ma valido anche se trasferito sul piano della metafora.
Così ciascuno è pirandellianamente Uno, Nessuno, Centomila, e nessuno osi presumere di sapere tutto di sé, a conferma della verità scritta sul tempio di Apollo Delfico, con cui si invitava il pellegrino alla difficile arte del Conoscere se stesso.
L’immagine dell’autoritratto è carica di senso, polivalente, strutturata. Vi si può trovare quel “girare le spalle al mondo” che costituisce la cifra più veritiera dell’artista di autentica vocazione, che non si ferma mai al semplice anticonformismo, ma si pone come persona di sostanziale “diverso sentire”.
Vi si coglie, però, anche la frammentazione dell’individuo che ha imparato la lezione freudiana, insieme al crollo delle illusioni, alle amarezze della vita, al disinganno.
È un’immagine disincantata, quella che Buonumori offre di se stesso, ma è anche il profilo di chi ha compreso che l’artista vero è quello che porta lo stigma della modestia, dote che non è mai disgiunta dalla cultura e dall’intelligenza. E che soprattutto possiede la rara capacità “matissiana” di condensare sensazioni, l’unica merce che non sia oggi in vendita un tanto al chilo.
In fondo, Angelo ha appreso da Saint-Exupéry che Esiste un solo vero lusso: quello dei rapporti umani. E con questi lavori ce lo dimostra: con onestà, spontaneità e rigore, ma anche con una punta di ironia che, da sempre, costituisce il sale della vita.